Ingratitudine.

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°Jo.Sawyer°
view post Posted on 24/11/2011, 16:53




I suoni tipici di una sera d’agosto si confondevano e si univano nell’aria umida producendo un sospirato lamento. Quella sera, in realtà, non era così usuale poiché, seppur agosto, la temperatura sfiorava i diciassette gradi celsius. O almeno è come lei la percepiva. Forse per la disabitudine a certe temperature o per la vulnerabilità dell’animo suo, il freddo le pungeva la pelle nuda e abbronzata. Davanti a lei si stagliava un cielo limpido, punteggiato da miliardi di stelle e illuminato da una Luna accecante. Tuttavia, la sua vista sembrava non funzionare. Non le vedeva bene queste bellezze. Troppo lontane e tutto era troppo sfocato. C’era foschia intorno e non capiva di chi fosse la responsabilità. Odori e suoni, oh sì, li percepiva. Caffè e il frinire delle cicale. Era la stagione d’amore. Non era quello che cercava lei, lei desiderava riuscire a vedere di nuovo ed era sua convinzione che per guarire avrebbe dovuto scoprire la ragione della sua cecità. Aveva freddo, il corpo irrigidito in un buio sfocato. Perché tutto appariva indefinito? Era, forse, un problema del suo corpo, involucro malsano? Le stava tendendo una trappola per cercar vendetta? Troppo l’aveva fatto soffrire, troppo era stato il dolore.

Erano lacrime quelle vipere che non le permettevano di mettere a fuoco l’ambiente circostante? Chiuse gli occhi e strinse le palpebre. Nessun liquido, gli occhi erano secchi e la realtà ancora sterile di bellezza. Il freddo stava raggiungendo le ossa…

Era la realtà non chiara, allora?Evanescente, sfuggente, umida. Come poteva solo pensare di poter continuare a camminare, a risalire il sentiero se non era capace di vedere la strada? Con quella apatia che vestiva il suo corpo come avrebbe potuto mettere un piede dopo l’altro e procedere con sicurezza? Era già ferita, non poteva rischiare. I suoni ambigui continuavano a colpirla e a scuoterla con enorme intensità. Cos’era quel suono? Era il vento tra le foglie o foglie mosse da passi d’uomo? Repentinamente si girò e cadde. Non vedeva, non vedeva! Quella figura è un albero o un uomo? Dov’era? Il lamento di quella natura fuori stagione si placò e con quel poco di forze che le rimanevano, nel buio, suo e del bosco in cui si trovava, si alzò.

Lo vide. Incominciava a vedere di nuovo, focalizzando adagio un piccolo punto, vicino al sentiero, ai piedi del faggio. Un esserino minuscolo e indifeso. Un uccellino disteso sul pavimento naturale apriva e chiudeva disperato il becco. Non emetteva nessun suono, nessuno lo ascoltava. Lei lo vedeva, lei lo sapeva, lei poteva ascoltarlo. Con sollievo e con gioia notò di riuscire a vedere, ancora e ancora. Vedeva quel pulcino solo, in quel freddo speciale di una brutta sera d’agosto. Con nuovi occhi, forse speranzosi, vide che quel pulcino non aveva piume: era nudo di pelle ruvida, vissuta, con cicatrici, ma era ancora chiara, rosa e infantile.

Continuava a chiamare, il pulcino. Lei continuava a guardare perché ancora troppo impegnata e confusa dai mille suoni e odori di quel bosco. Poi capì. Doveva salvarlo e voleva salvarlo. Chiedeva aiuto, il pulcino, e lei realizzò che per far parte di quel mondo doveva vedere, vedere, vedere. E vide lui che aveva bisogno di lei come lei, per rinascere, aveva bisogno che quell’uccellino avesse bisogno di lei. Sorrise e si sentì completa, si sentì parte di qualcosa. Si sentì coinvolta in una situazione chiara, splendente e lucente. Si sentì forte perché lei non era quella più debole, in quel bosco.

Si avvicinò a quel pezzettino d’anima di bosco, si tolse la giacca e l’adagiò per terra. Con delicatezza lo raccolse, lo accolse con sollievo nella sua nuova vita, nuova perché aveva altri occhi, aveva gli occhi di chi lei aveva salvato. La salvezza di quel pulcino era stata la salvezza della persona che lei è stata fino ad ora.

Lo accolse in casa, gli preparò un giaciglio. Ricerche su ricerche su come si dovesse comportare con un fardello gioioso come quello. Voleva rendergli le cose facili, voleva che si sentisse bene, voleva che fosse sano e forte. Quel pulcino aveva già fatto abbastanza, le aveva ridonato la vita e dato chiarezza alla sua anima impaurita. Il buio era diventato casa, il freddo era diventato un conforto e iniziò a percepire e a godere dei mille suoni e odori di cui la realtà era fatta. Essi non erano più una minaccia ma erano fonte di felicità e gioia. Il pulcino, nella sua disgrazia, le aveva aperto gli occhi. Il pulcino le rubava tempo ed energie con le sue richieste, i suoi bisogni e i suoi capricci. Ma lui l’aveva salvata, gli doveva tutto.

Lo imboccava con la siringa piena di pastone contenente tutte le proprietà nutritive necessarie affinché si salvasse e crescesse sano. Lei aveva riempito con amore e con gioia una scatola di stracci, coperte e fiori affinché il pulcino potesse essere al sicuro. Prima che lui mettesse il piumaggio, aveva posto vicino al nido una lampada affinché non sentisse freddo e affinché chi entrava si potesse rendere conto del tesoro che c’era ormai nella sua vita. In casa di lei, da tempo ormai, vivevano un gatto e una cagna che, notando il distacco e l’assenza improvvisa della padrona, chiedevano attenzione e conforto da parte sua. Lei li ignorava. Lei aveva il suo pulcino.

Il pulcino divenne un corvo giovane e forte. Il piumaggio splendeva di un verde-nero da togliere il fiato, il becco forte e tagliente, le zampe robuste e veloci, le ali belle e forti ma ancora vergini di volo. Il corvo continuava ad avere bisogno di lei, come lei di lui. Anche lei, grazie a quel pulcino era cresciuta. Ormai aveva imparato a guardare, ad ascoltare e a percepire. Ormai aveva imparato ad amare. Il pulcino, la vita, ma non se stessa. Ecco, l’unica sua debolezza tra la forza e il grande animo che possedeva. Il corvo nero la seguiva sempre zampettando dietro di lei. La controllava e aveva imparato a conoscerla. Se era stanca, non le chiedeva il cibo, mangiava da solo e, una volta mangiato, si appollaiava vicino al suo corpo. Se qualcuno si avvicinava e la infastidiva, puntava quel qualcuno e iniziava a comportarsi in modo tale da farlo andare via e a lasciarla in pace. Bella coppia.

Un giorno, lei lasciò la porta della sua camera aperta e nel loro nido d’amicizia si intrufolò il gatto. Scoprì un nuovo mondo e, soprattutto, una nuova preda. Il gatto, ovviamente,sapeva come muoversi per potere raggiungere il corvo; il corvo non sapeva come fare a fuggire dal gatto, poiché non sapeva volare. Ma ancor più grave era che il corvo non sapeva quanto effettivamente fosse letale quel gatto. Il corvo era incuriosito per questo si avvicinò con fare gioioso al felino. Il pennuto e il felino, la preda e il predatore, iniziarono a giocare. Il pennuto incominciava a fidarsi, il felino incominciava a leccarsi i baffi. Poi, all’improvviso, il felino lo attaccò. Il corvo non sapeva che fare e come sfuggire, le sue ali non sapevano volare. Lei entrò in stanza e salvò ancora una volta il povero pulcino cresciuto. Lui non la lasciò più, lei disse “devi imparare a volare”.

Per mesi ci provarono. Poi ci riuscirono. Lui volò e non torno più. Ma non sapeva ancora come cacciare per nutrirsi.





°Giada Spadavecchia°
 
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